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“Non dovremmo vergognarci di riconoscere la verità da qualunque fonte essa giunga a noi, anche se essa ci viene portata da generazioni precedenti e da popoli stranieri. Per colui che cerca la verità non vi è nulla che valga più della verità stessa.”
[Ya’qub ibn Ishaq al-Kindi, filosofo arabo del IX sec.]

Buongiorno a tutti! Oggi torneremo nelle Terre Selvagge per scoprire come gli indisciplinati Uomini Bestia si siano potuti trasformare da predoni opportunisti in un’inarrestabile marea in grado di mettere a dura prova anche le forze dell’Impero Colviano. Per capirlo andremo a curiosare tra le dinamiche di alcune tribù primitive e analizzeremo i fattori che resero possibile la straordinaria espansione militare dei popoli arabi nel VII sec. d.C.

Illustrazione raffigurante la progressione dei ranghi militari aztechi. Codice Mendoza, XVI sec.

Illustrazione raffigurante la progressione dei ranghi militari aztechi. Codice Mendoza, XVI sec.

Nell’approfondimento dedicato alle origini degli shvaergi ho accennato al loro modo di interpretare gli scontri come una serie di duelli individuali, occasioni per mettersi in luce e dimostrare il proprio valore, non necessariamente tramite l’uccisione dei nemici. Per esempio, l’espressione “toccare colpo” citata in quell’occasione si riferiva all’usanza dei nativi americani e degli shvaergi di colpire in maniera non letale un avversario per dare prova di superiorità ed era codificata in maniera piuttosto precisa, tanto che i guerrieri consideravano i primi quattro “colpi” su ogni nemico, anche suddivisi tra più uomini, e attribuivano loro un valore decrescente in termini di prestigio. Allo stesso modo, le incursioni dei giovani guerrieri delle pianure presso le tribù vicine per rubare cavalli non prevedevano spargimenti di sangue premeditati, anzi subire delle perdite rendeva la spedizione un insuccesso. L’enfasi sul valore individuale si collocava all’interno della concezione del confronto militare tipico delle società tribali, ma non solo: nell’esercito azteco gli aspiranti soldati di professione e gli ufficiali dovevano catturare schiavi in battaglia per salire di rango e non restare semplici reclute destinate a tornare nei campi alla fine della guerra. La cattura di schiavi era così importante ai fini della carriera militare, che farsi aiutare nel prendere prigionieri era severamente punito.
La tendenza dei combattenti primitivi a evitare gli spargimenti di sangue tipici dei conflitti come li intendiamo in senso moderno non derivava da ritrosie di tipo morale o da una fantomatica natura pacifica del “buon selvaggio”, come qualche lettura un po’ naïf ha talvolta azzardato, ma era figlia delle condizioni in cui vivevano tali popolazioni. La guerra “totale” infatti richiede tempo, risorse (armi, provviste, equipaggiamento) e una demografia in grado di sopportare le perdite. Le società basata sulla caccia e la raccolta non potevano dedicare mesi alle campagne militari, perché avrebbero terminato le scorte di cibo e non avrebbero avuto modo di reintegrarle, dato che quel tipo di sostentamento è di norma poco efficiente. Del resto anche nelle civiltà più avanzate, incentrate sull’agricoltura, le campagne militari potevano essere interrotte o rimandate a causa del raccolto. Ancora oggi in Afghanistan non è raro che le reclute del costituendo esercito nazionale disertino nel periodo del raccolto per poi, ma non sempre, ripresentarsi una volta terminato di aiutare la famiglia. In Oriente in passato capitava che gli eserciti seminassero, crescessero e mietessero raccolti nel corso delle guerre, se la sedentarietà della guarnigione lo permetteva.
Lo stesso principio vale per le risorse necessarie per la guerra, siano esse armi o razioni destinate ai combattenti: soltanto una società in grado di produrre un’eccedenza può accantonarla a fini bellici. Un corollario di questo principio è che una casta di militari di professione può esistere soltanto in presenza di tale eccedenza, anche se in seguito si può sostentare predando le scorte di civiltà vicine e più deboli.
L’ultimo fattore è demografico: tribù composte da poche decine o centinaia di individui non possono permettersi di subire perdite elevate in battaglia, perché non resterebbero abbastanza forze per cacciare, raccogliere cibo o anche solo per proteggere vecchi, donne e bambini da altre tribù ostili. Una società molto esigua decimata da un conflitto soccombe perché incapace di sostentarsi e perpetuarsi nel tempo.
Alla luce di questi fattori è evidente come mai i guerrieri primitivi (o gli shvaergi) non potessero impegnarsi all’ultimo sangue nel perseguire la distruzione delle tribù rivali. Del resto, anche in caso di vittoria avrebbero avuto più da perdere che da guadagnare: non c’erano grandi riserve di cibo da razziare, non avevano campi da far coltivare, opere da costruire né miniere da sfruttare e, dato che le società di raccoglitori si spostavano sempre per cercare nuove fonti di cibo, non avevano interesse a occupare un’area già sfruttata dagli sconfitti.
Alcuni interessanti esempi in tal senso vengono da alcuni studi sulle tribù della Nuova Guinea, che vivevano in comunità inferiori al migliaio di individui e praticavano un misto di caccia, raccolta, coltivazione di tuberi in tratti di foresta incendiati e allevamento di maiali. Quando le tribù entravano in conflitto, le battaglie venivano concordate e, nonostante le alleanze tra i villaggi portassero anche a schieramenti di duemila guerrieri, gli scontri si risolvevano in duelli individuali in cui gli uomini mostravano la propria abilità nello schivare lance e frecce. Non era raro che le donne seguissero i mariti per incitarli e vagassero nella terra di nessuno per raccogliere proiettili caduti da passare ai propri uomini. Se qualcuno restava ferito gravemente o moriva, la battaglia veniva sospesa.
Tra i maring, sempre in Nuova Guinea, i combattenti erano dotati anche di asce di pietra e grossi scudi di legno. In questo caso la prova d’abilità consisteva nell’abbandonare la protezione dello scudo ed esporsi per schernire i nemici, attirare le frecce su di sé e tornare al riparo. Quando lo scontro si faceva più serio e si arrivava al corpo a corpo, lo scambio implicava anche colpi d’ascia sugli scudi, ma si trattava pur sempre di scontri che noi giudicheremmo all’acqua di rose: i combattenti tornavano a casa a dormire la sera, potevano allontanarsi per riposare se erano stanchi, se pioveva restavano nelle capanne e potevano concordare tregue anche di diverse settimane per ridipingere gli scudi o coltivare nuovi orti da cui trarre sostentamento. Vi erano casi di violente scorrerie ai danni dei villaggi nemici, in cui si uccidevano anche donne e bambini, ma in questo caso veniva meno la componente rituale dello scontro e l’obbiettivo era scacciare la tribù rivale, nonostante se ne occupasse raramente il territorio nel timore che i fuggitivi vi avessero gettato il malocchio. Gli antropologi notarono inoltre che i maring scendevano in guerra all’incirca ogni dieci anni, poiché credevano che ogni guerriero dovesse uccidere e mangiare un maiale per ingraziarsi gli antenati in vista della guerra e il lasso di tempo era quello necessario alle loro tribù per accumulare un numero sufficiente di animali. Ancora una volta appare evidente come i numeri condizionino la condotta anche delle società apparentemente estranee a questo genere di calcoli.
Nel caso degli Uomini Bestia, ho adottato questo modello per i conflitti minori tra tribù e per il comportamento dei singoli, ma ho pensato anche che la loro natura ferina e selvaggia li avrebbe portati a riprodursi a dismisura, impoverendo il proprio ecosistema fino a formare una massa critica destinata a sfociare in una guerra totale per le poche risorse rimaste, oppure a cercare sfogo attaccando gli umani. Per questo secondo aspetto della loro cultura mi sono ispirato alla spaventosa ferocia delle tribù maori.

Ricostruzione di un pā, tipica fortezza maori. Auckland War Memorial Museum, Nuova Zelanda

Ricostruzione di un pā, tipica fortezza maori. Auckland War Memorial Museum, Nuova Zelanda

I maori giunsero in Nuova Zelanda alla fine del XIII secolo e in breve tempo la loro pressione demografica, una serie di terremoti, tsunami e un abbassamento della temperatura misero in crisi le risorse naturali. Numerose specie di animali scomparvero a causa della caccia eccessiva, finché le tribù si trovarono a dover lottare per la terra e lo sfruttamento delle fonti di cibo rimaste. Ciò portò alla nascita di una cultura spietata in cui lo sterminio degli avversari era un obbiettivo perseguito in modo deliberato. Si combatterono battaglie che coinvolsero fino a diecimila guerrieri, con migliaia di morti, ed è stato stimato che l’aspettativa di vita media fosse di soli 31-32 anni!
Una delle tattiche praticate consisteva nel mandare gli uomini più giovani e veloci all’inseguimento dei nemici per azzopparli, mentre il grosso della banda seguiva più lentamente per finirli. Si pensa che un guerriero abile potesse menomare senza troppa difficoltà anche dieci o dodici avversari nel corso di un singolo scontro. Se tra le tribù vi erano vecchi rancori, spesso tramandati per generazioni, i vincitori divoravano i corpi degli sconfitti a eccezione della testa, che invece veniva esposta sulla palizzata della loro fortezza. Lo stato di guerra permanente infatti portò alla costruzione di qualcosa come quattromila fortificazioni (chiamate ) erette in collina e dotate di una o più palizzate, bastioni, terrazzamenti da cui scagliare lance e frecce, pozzi e magazzini per il cibo. Alcune comprendevano persino dei campi coltivati all’interno del perimetro difensivo.
Quando ciclicamente la popolazione di Uomini Bestia raggiunge numeri insostenibili, la crescente conflittualità per l’approvvigionamento di cibo sfocia necessariamente in un conflitto, che può essere interno (ma è raro e comunque solo nelle fasi iniziali, finché non emerge una gerarchia tra i capi shmuergi) oppure rivolgersi contro una razza vicina e dotata di ingenti scorte di cibo, quella umana.

La battaglia di Vienna, XVII secolo

La battaglia di Vienna, XVII secolo

Ma chi o cosa può unificare clan rivali, specialmente se appartenenti a specie aggressive come shvaergi e shmuergi? La risposta che mi sono dato è stata questa: la religione.
Abbiamo già visto come in passato la religione, per sincera convinzione o più spesso come pretesto, abbia rappresentato uno straordinario catalizzatore di intenti e di sforzi sul piano sociale, politico e militare. Gli Uomini Bestia non fanno eccezione.
Il pensiero corre subito alle crociate in Terra Santa, ma si tratta soltanto di uno dei tantissimi esempi di come il fattore spirituale abbia creato nei secoli coalizioni volte ad affermare questo o quell’obbiettivo temporale, ammantandolo di motivazioni e ideali divini. Solo per restare in ambito cristiano, pensiamo alle Crociate del Nord, a quelle contro le eresie, ai conflitti tra protestanti e cattolici tra le ragioni della Guerra dei Trent’anni o alle varie Sante Alleanze formate dalle potenze cristiane, tra le quali vale la pena ricordare quella del 1571 che portò alla vittoria navale di Lepanto, in cui giocarono un ruolo di primo piano le poderose galeazze veneziane, e quella del 1684, sorta subito dopo la rottura dell’assedio ottomano a Vienna da parte di truppe imperiali e polacche, durante la quale emerse il talento militare di Eugenio di Savoia, generale asburgico a soli ventidue anni.
Si potrebbe obbiettare che c’è una notevole differenza tra spronare a una campagna militare regni con gerarchie feudali ed eserciti e unificare gruppi tribali in competizione tra loro, sparsi su un territorio ostile e attorniati da forze soverchianti, tra cui un potente impero. Per quanto possa sembrare improbabile, invece è esattamente quanto accadde a partire dal VII secolo d.C. con l’espansione del Califfato islamico.
Prima dell’avvento dell’Islam, l’Arabia era una terra frammentata, scarsamente popolata da tribù beduine di pastori nomadi e piccole comunità di agricoltori, artigiani e mercanti. Le oasi rappresentavano centri di commercio e aggregazione per le grandi famiglie che, accomunate dagli antenati e dalla versione di dialetto arabo parlata, avevano gradualmente costituito delle tribù. Tutto intorno vi erano realtà potenti e differenti tra loro: l’Impero Bizantino e quello Sassanide con i rispettivi stati-cuscinetto costituiti da ghassanidi e lakhmidi, il regno cristiano d’Etiopia e il vicino Yemen, che cambiava spesso assetto politico e dominatori. Le tribù arabe praticavano una religione politeista in cui alle divinità si affiancavano numerosi spiriti e demoni, alcuni dei quali sono entrati nel nostro immaginario attraverso le storie mediorientali, come per esempio i djinn (da cui il nostrano genio) e gli ifrit, sorta di geni infernali affini al fuoco. Dagli stati vicini filtravano influenze dalle principali fedi del tempo: giudaismo, cristianesimo (in parte anche di dottrine eretiche) e zoroastrismo. Fu questo il contesto in cui nacque e si sviluppò la predicazione di Maometto. Cacciato dalla Mecca, allora un importante centro commerciale, per i crescenti contrasti con le famiglie dominanti della tribù quraysh, il profeta stabilì la propria base nell’oasi della Medina, dove acquisì un’influenza e un seguito crescenti, finché nel 630 la città della Mecca gli si consegnò e sempre più tribù stipularono con lui accordi di alleanza. Maometto morì nel 632, ma le redini del nascente dominio furono prese da uomini altrettanto determinati, come Abu Bakr e poi Omar, sotto la cui guida il Califfato si estese all’intera penisola arabica e, ai danni di bizantini (ancora prostrati dalla peste giustinianea del secolo precedente e dalle estenuati guerre contro i persiani) e sassanidi, in Egitto, Libia, Siria, Mesopotamia e ancora a nord fino al Mar Caspio e in oriente fino agli odierni confini del Pakistan. Nei cento anni successivi le incontenibili armate musulmane si espansero fino alla valle dell’Indo, in Turchia e in Asia centrale, inoltre conquistarono tutto il Nord Africa fino alle coste atlantiche del Marocco, la penisola iberica a eccezione delle Asturie e si attestarono alle pendici dei Pirenei dopo la sconfitta subita a Poitiers nel 732 per mano dei Franchi di Carlo Martello e le successive campagne per scacciarli dal sud della Francia.

Carlo Martello nella battaglia di Poitiers, dipinto del 1837

Carlo Martello nella battaglia di Poitiers, dipinto del 1837

In meno di un secolo e mezzo, quelli che erano stati gli sparuti abitanti di un deserto avevano spazzato via l’ultima incarnazione dell’impero persiano, smembrato quello bizantino, erano diventati padroni dell’intera sponda sud del Mediterraneo e minacciavano il cuore dell’Europa continentale. Il tutto grazie alla forza unificatrice della fede. In passato la religione era già stata asservita agli eserciti da altri popoli, per esempio le tribù d’Israele avevano portato sul campo di battaglia l’Arca dell’Alleanza come un’arma vera e propria, oppure si può pensare al famoso “in hoc signo vinces” di Costantino prima della battaglia di Ponte Milvio, ma si era trattato di episodi limitati, non di una rivoluzione con l’obbiettivo di superare l’individualismo, i legami tribali e di sangue per fondare un’unica comunità di credenti.
Prima dell’avvento del Califfato, le guerre tra tribù avevano prevalentemente carattere di scorrerie, tendevano a contenere i danni e le perdite al minimo e vi erano spesso duelli tra i campioni delle rispettive fazioni. Pare che in una certa misura partecipassero anche donne e anziani. Gli ammirati cavalli arabi erano rari e preziosi, così come le armature, prerogativa dei più ricchi. Insomma si può notare come ricorressero molte delle caratteristiche che abbiamo visto sopra in relazione alla guerra “primitiva”. Come nacquero quindi gli eserciti in grado di sbaragliare forze numericamente superiori, meglio equipaggiate e addestrate? Sempre grazie alla religione, che codificò i comportamenti da tenere e da evitare. Ai credenti non era permesso battersi tra loro; vecchi, donne e bambini di norma non dovevano prendere parte ai combattimenti (ma vi sono delle distinzioni ed eccezioni, tenete conto che semplifico per ragioni di sintesi); la partecipazione alla guerra non doveva compromettere né la stabilità economica né quella familiare; si doveva partecipare per diffondere la fede e non per fare bottino (che veniva comunque accumulato e redistribuito tra le truppe); obbedire ai superiori era un obbligo; non si doveva disertare né fuggire, a meno che vi fossero delle ragioni tattiche o la superiorità numerica avversaria fosse schiacciante; chi non poteva partecipare alla guerra, ma disponeva di mezzi finanziari o altre risorse utili, doveva contribuire allo sforzo bellico. L’insieme di queste prescrizioni ridusse l’individualismo, aumentò disciplina, morale e motivazione delle truppe e le rese molto più affidabili sul campo di battaglia, sia in termini di obbedienza agli ordini, sia di continuità e impegno durante la campagna: per esempio nessuno si sarebbe sognato di disertare per tornare ad aiutare la famiglia o a dissodare i campi come abbiamo visto in Nuova Guinea. Il dovere di fornire armi e denaro all’esercito qualora non si potesse partecipare alla campagna permetteva inoltre di reclutare e sostenere uomini altrimenti troppo poveri per equipaggiarsi, aumentando al contempo la coesione sociale.

“La pietra d’angolo della guerra è la perseveranza, il suo perno è il sotterfugio, il suo asse è lo sforzo unanime, il suo timone è la disciplina, il suo freno è la prudenza, e a ciascuno di questi elementi corrisponde uno specifico vantaggio: il frutto della perseveranza è l’aiuto divino, il frutto del sotterfugio è il successo, il beneficio dello sforzo unanime è la riuscita, quello della disciplina è l’armonia delle operazioni e il frutto della prudenza è la salvezza.”
[Ibn Hudhayl al-Andalusi, L’ornamento delle anime, XIV secolo]

Il campo della battaglia di Yarmuk (636 d.C.), ottimo esempio del tipo di terreno scelto dai primi eserciti musulmani

Il campo della battaglia di Yarmuk (636 d.C.), ottimo esempio del tipo di terreno scelto dai primi eserciti musulmani

Il numero ridotto di uomini disponibili costrinse comunque gli arabi a impiegare tattiche prudenti, per esempio era tipico che, dopo aver esasperato il nemico con una serie di incursioni, sfruttassero l’elevata mobilità strategica fornita dai cammelli per occupare posizioni favorevoli come gole, pietraie, alture o scarpate da dove i loro abili arcieri potevano bersagliare i nemici in avvicinamento su terreni che li rallentavano o impedivano di dispiegare contingenti numerosi. I preziosi cavalli, montati solo in battaglia per risparmiarne le forze, venivano quindi adoperati per sferrare devastanti cariche ai fianchi contro avversari già provati dall’avanzata sotto il tiro degli archi. Se gli arabi avevano la peggio ed erano costretti a sganciarsi dal nemico, l’attenzione nella scelta del campo di battaglia si traduceva in una più agevole ritirata grazie alla mobilità e alla puntuale conoscenza di oasi e fonti d’acqua delle zone desertiche.
I miei Uomini Bestia ovviamente non sono capaci di simili finezze, ma mutuano comunque alcune delle caratteristiche necessarie per trasformare guerrieri che si guardano in cagnesco in un esercito capace di grandi imprese. Per esempio, la credenza che gli shmuergi siano eroi shvaergi reincarnati e prescelti dagli dèi conferisce loro un’autorità indiscussa, inoltre la ritrosia degli shmuergi a battersi tra loro fa sì che di norma l’aggressività degli immensi branchi si proietti all’esterno e non sfoci in lotte fratricide. Il fervore mistico indotto dai riti degli sciamani invece rende gli shvaergi fanatici, incuranti delle perdite e desiderosi soltanto di travolgere il nemico per guadagnare la benevolenza del dio Tshagar, riuscendo a supplire alla cronica indisciplina e alla scarsa dedizione dei caproni.

Bene, eccoci arrivati alla fine di questo approfondimento. Spero che abbiate trovato interessante far luce su un aspetto del background del romanzo in apparenza primitivo e basilare, anche perché ha fornito lo spunto per scoprire qualcosa in più a proposito di importanti civiltà vicine sulle cui origini spesso ci soffermiamo poco, tendendo quasi a farle apparire dal nulla in corrispondenza delle crociate 🙂

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Letture consigliate:
A. Hourani, Storia dei popoli arabi, Mondadori
V. F. Piacentini, Il pensiero militare nel mondo musulmano, Franco Angeli
J. Keegan, La grande storia della guerra, Mondadori
D. Nicolle, Eserciti della conquista islamica, Eserciti e battaglie n.67, Ed. del Prado